La vita a ridosso della morte, immanente cappa che la accompagna ogni istante, soprattutto quando le giornate sono segnate dal ritmo delle armi. La morte che, al termine della guerra, sembra allontanarsi in un oscuro tramonto solo per ripresentarsi nella ben più subdola e strisciante forma di una malattia che raramente perdona.
In “Diceria dell’untore”, lo scrittore siciliano racconta la propria esperienza nel sanatorio della Rocca, a Palermo, dove entrò nel 1946, a un anno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale quando gli fu diagnosticata una tubercolosi che sembrava impossibile da superare.
In questa trasposizione teatrale, tutti i personaggi incarnano la dicotomia tra cura e desiderio, tra la freddezza della scienza e il calore fugace dell’amore. Un omaggio al potere immortale della parola e alla capacità unica del teatro di sfidare l’oblio: una riflessione su cosa significhi veramente esistere, sperare e lasciare una traccia, anche solo effimera, nel cuore degli altri.
In “Diceria dell’untore”, lo scrittore siciliano racconta la propria esperienza nel sanatorio della Rocca, a Palermo, dove entrò nel 1946, a un anno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale quando gli fu diagnosticata una tubercolosi che sembrava impossibile da superare.
In questa trasposizione teatrale, tutti i personaggi incarnano la dicotomia tra cura e desiderio, tra la freddezza della scienza e il calore fugace dell’amore. Un omaggio al potere immortale della parola e alla capacità unica del teatro di sfidare l’oblio: una riflessione su cosa significhi veramente esistere, sperare e lasciare una traccia, anche solo effimera, nel cuore degli altri.